Simona Meriano, Stupro etnico e rimozione di genere

La guerra sul corpo delle donne nel conflitto della ex Iugoslavia

di Maria Pia Fontana

 

 

 

 

Ci sono delle voragini e dei buchi neri nella coscienza e nella memoria collettiva che non si producono per caso in quanto esiste un rapporto tra la conservazione del ricordo e gli assetti del potere sociale e politico. Ne deriva che una comunità può essere intenzionalmente incoraggiata a selezionare il materiale storico da confinare nell’oblio o da recuperare attraverso la rimembranza, generalmente in funzione delle dinamiche di potere e delle posizioni consolidate di egemonia. Il merito dell’opera di Simona Meriano sta nel fatto di offrire un contributo al disvelamento delle atrocità commesse nella guerra della ex Iugoslavia adottando una prospettiva di genere perché “dei conflitti si ricordano altri dati, si celebrano le imprese militari, le strategie politiche, si contano i morti, ma si dimentica la guerra sessuale contro le donne (pag. 134)” .
        

In quest’ottica la donna e lo stupro che la colpisce si caricano di significati simbolici profondi quanto rimossi. Il corpo della donna, che più di quello maschile evoca accoglienza, contaminazione, incrocio e legame di vite, diventa terra di colonizzazione, ventre da fecondare e territorio da calpestare. Lo stupro marca i territori e diventa strumento di uccisione delle anime e di disumanizzazione delle vittime, ridotte a scatole vuote, meri contenitori del seme maschile che veicola l’aberrante sogno procreativo di creare una razza eletta attraverso la “pulizia etnica”. Tutte le donne dei vari gruppi confliggenti furono stuprate durante il conflitto, ma la violenza maschilista si riversò soprattutto, ad opera dei Serbi, sulle musulmane di ogni età, in un impeto di violenza volta ad azzerare anche le radici culturali dell’Islam attraverso gli incendi alle moschee, le torture agli imam e la derisione ai loro simboli e riti religiosi. 

Scopo dell’opera della Meriano è quindi quello di recuperare molte delle testimonianze dirette delle vittime e di rendere i ricordi conformi a criteri di giustizia. Infatti, guardare la polvere sotto il tappeto delle mistificazioni o delle omissioni prodotte da un’atavica cultura maschilista non vuol dire solo rendere omaggio alla verità storica ma significa soprattutto gestire la responsabilità sociale che deriva dalla sofferenza delle vittime, rimasta impunita, migliorando le loro condizioni di vita ed assicurando loro la dignità negata dagli abusi come anche dalle istituzioni che avrebbero dovuto offrire tutela o riparazione.

Secondo la stima del Rapporto Warburton della Comunità Europea le donne violentate furono circa 20.000, ma il governo bosniaco ritiene che il numero sia molto più alto raggiungendo le 50.000 unità, mentre sembra che siano circa 500 i “figli dell’odio”, oggi adolescenti, nati agli stupri etnici, anche se pure il loro numero è con tutta probabilità sottostimato. Molte di queste donne vivono uno stato di precarietà economica e di marginalità sociale e portano ancora oggi impresso il marchio d’infamia della violenza, che le priva del coraggio della denuncia o della credibilità di chi può realisticamente aspirare alla giustizia.

Dopo una ricostruzione dei più salienti episodi della guerra in Bosnia Erzegovina la riflessione della Meriano si sofferma sulle caratteristiche psicologiche dell’uomo che agisce la violenza, evidenziando i tratti della sua identità, così come le derive e i paradossi, che trovano nell’azione di gruppo un rinforzo e un moltiplicatore della brutalità, teso ad attutire e a polverizzare la responsabilità individuale. L’autrice esplora anche i significati simbolici dello stupro etnico che, pure attraverso la ferocia, mescola in modo ambivalente l’odio e il disprezzo suscitato dalle donne dell’avversario, all’attrazione e al piacere carnale verso di loro, “mentre tra le pulsioni sadiche e omicide si insinua il richiamo della funzione materna e riproduttiva” (pag. 86). La Meriano approfondisce inoltre le sofferenze e il danno psicologico degli stupri, con particolare riferimento al trauma della disintegrazione dell’Io e alla fatica, talvolta intollerabile, dopo una gravidanza forzata, di dover accogliere in grembo un figlio che incarna l’alterità assoluta e il male inflitto dal nemico.

La parte conclusiva dell’opera chiarisce infine i processi della memoria collettiva e della rimozione di genere evidenziando le amnesie del corpo sociale quando i meccanismi di produzione e di mantenimento culturale sono condizionati da logiche maschiliste di potere.
Se la conoscenza sui “temi indigesti” della società procede attraverso conflitti, arresti e progressi, può dirsi che la prospettiva di genere adottata da Simona Meriano abbia consentito di fare un passo avanti rispetto alla conoscenza degli aspetti oscuri del conflitto in Bosnia Erzegovina e di come questa guerra sia stata scritta e ricordata. E visto che, come è stato detto, i livelli più bassi di umanità si toccano non per il ribollire di un’istintività incontrollata, quanto piuttosto per l’indifferenza della maggioranza silenziosa, possiamo tutti dare un piccolo contributo affinché questa storia svelata e consegnata possa avere delle ricadute reali per chi visse venti anni fa il dramma dello stupro come per chi continua a viverlo ora, nelle ordinarie e silenziose guerre domestiche o in quelle che esplodono e continuano a bruciare vittime nelle diverse parti del mondo.

29-9-2017